L'ultima sera
Dal mio diario:
Fui l'ultimo a parlare con Don Eugenio.
Entrai nell'Oratorio, come era abitudine di molti, già tardi. Solo la luce del vecchio buffet era accesa, ma non sentivo il solito parlottare con l'inconfondibile timbro della voce del Signor Vismara.
Entrai. Don Eugenio era solo. Il famoso "ritrovo serale", esempio di televisione interattiva e multimediale dal vivo, languiva, soppiantato dalla nuove abitudini dei giovani e della gente...
...Il ritrovo serale. Occasione di amicizie durature e fucina di idee per organizzare e preparare le tante attività: il calcio, la pallacanestro, il ping-pong, l'associazione missionaria, le prove del teatro, il gruppo accoliti, i convegni maggiori e minori con le loro ulteriori attività.
Ogni sera lui era sempre presente e i suoi progetti e le sue passioni diventavano le nostre perché sapeva riproporle con gusto didascalico: fotografia, musica, il gioco delle carte, i viaggi, il gioco degli scacchi e della dama, il ping-pong, il biliardo, la regia teatrale, l'organizzazione delle gite, il disegno, i cartelloni, gli scritti, i componimenti musicali, il coro dei bambini, il coro degli adulti, la dottrina dei giovani. E ancora Marina, Branzi, Gavia, l'Oratorio feriale, le riunioni per attività e infine la riunione cooperatori.
Momento determinante perché la scelta e la formazione dei collaboratori era il momento meno noto ma più delicato e importante di tutta la vita organizzativa dell'Oratorio. Apprezzava chi sapeva mettersi a disposizione con umiltà, chi sapeva conquistarsi l'autorevolezza senza imporre autoritarismi. A volte era difficile collaborare perché pretendeva molto in termini di quantità e qualità di impegno, ma molti lo seguivano perché a se stesso chiedeva di più: la sua dedizione totale all'Oratorio era diventata ormai consumazione. Al termine del ritrovo, a sera inoltrata, uscivamo dal portoncino socchiuso e nel rione ancora gente. La gente di via Borsieri. I cortili, dentro i cortili e i portoni aperti alla sera, tanta gente. Ai "poveri" delle case di ringhiera della via Borsieri si accompagnavano i "ricchi" di piazzale Segrino. Distinzione puramente toponomastica, priva di ogni forma di conflitto sociale perché nell'Oratorio eravamo tutti uguali. Uguali perché ognuno si sentiva importante, conosciuto da Don Eugenio e dai suoi cooperatori, chiamato per nome e cognome, seguito, osservato, controllato: entrando c'era sempre un grande che ti riconosceva e ti salutava...
Mi salutò, mi indicò la sedia sempre in bilico fra le assi di quel pavimento sconnesso e iniziò a parlare...
...A Don Eugenio piaceva parlare, e quando parlava si infervorava sempre, anche quando si ripeteva perché ripeteva si le parole, ma la carica emotiva che ci metteva era sempre nuova e coinvolgeva sempre. I fatti, anche vecchi di anni, sembravano accaduti ieri. Amava parlare in modo figurato citando con precisione persone e date. Le parole descrivevano i personaggi che rivivevano e comunicavano dal vivo i loro messaggi. Grande qualità oratoria che usava anche nelle lunghe prediche. Per questo affascinava e coinvolgeva e la Chiesa si riempiva sempre di giovani grandi e piccoli e di tanta gente. Ormai erano diverse generazioni perché i genitori, diventati ex allievi, portavano i loro figli ad ascoltare le stesse storie. La Messa delle ore 10: le panche centrali riservate ai giovani e tutto intorno nelle navate laterali, come in un abbraccio affettuoso, i genitori, i nonni, la gente. La sua formazione culturale, le sue umili radici, il suo carattere lo portavano ad essere naturalmente un uomo del Vangelo e da questo traeva sempre spunto nella sua funzione di educatore e di sacerdote...
Il volto più pallido del solito, ma nulla faceva presagire l'imminente tragedia, se non, ma di questo me ne sono accorto dopo, un desiderio, un'ansia di ribadire i punti fondamentali, le finalità primarie dell'Oratorio.
...Oratorio strumento educativo di massa. Una massa non anonima perché somma di tante persone a ciascuna delle quali dava una tesserino che doveva essere il segno visibile di una scelta da cui pretendeva coerenza. Guai vergognarsene, non lo sopportava...
La sua grande riservatezza non aveva permesso a nessuno, salvo forse ai suoi famigliari, di conoscere il suo stato di salute. Sapevamo solo che due anni prima non era stato bene e che i medici gli avevano) sconsigliato di salire al Gavia. Infatti da due anni aveva ridotto la presenza a pochi giorni e di questo se ne rammaricava molto. E così cominciammo a parlare ancora una volta del Gavia. Il suo parlare era diventato un fiume in piena. Era gennaio, ma voleva che già pensassi alla prossima stagione, al personale, ai lavori da fare, alle iniziative nuove e vecchie da proporre. Bisognava fare un piano di rilancio. Bisognava dare vigore ai quei principi ispiratori per i quali la Casa del Gavia era nata. Cominciò, a suo modo, ad elencarle e parlava come se non ci fossi solo io, ma tutti i giovani, ragazzi e ragazze, del suo Oratorio. Non osavo interromperlo anche se ormai la mezzanotte era passata.
...Che cos'è il Gavia? Don Eugenio aveva vissuto un'esperienza precedente a Trona, in una casa della Federazione Oratori e da li capi la possibilità di compiere tanto bene per i giovani. Come per altre cose, iniziò a progettare. Progettare è più che realizzare un insieme di idee seppur buone. C'è la stessa differenza che esiste fra un mucchio di mattoni e una casa. Entrambi sono fatti di mattoni, ma per costruire una casa è necessario avere in testa chiaramente finalità, metodi e contenuti.
- Finalità: il momento forte, austero, efficace nel lungo cammino di formazione e di preparazione ad una vita cristiana.
- Metodi: la presenza fondamentale del Sacerdote che si propone come guida spirituale quotidiana, occasione di un più profondo incontro con Dio attraverso una maggiore frequenza ai Sacramenti della Confessione e dell'Eucaristia. La Confessione e la conseguente guida spirituale sono i due momenti cardinali dell'azione educativa e formativa di don Eugenio. Su di essi si costruì e crebbe in tutti noi l'esperienza Oratorio Patronato S.Antonio.
- Contenuti: i valori fondamentali del messaggio universale del Vangelo, proposti con semplicità, naturalezza nella loro essenzialità.
Tutto il progetto Gavia doveva ruotare intorno a questi punti fermi. Solo così riteneva giustificati gli sforzi, anche finanziari, e i sacrifici che stava per chiedere a se stesso e ai suoi cooperatori. Solo così si giustificava l'enorme responsabilità che stava per assumere di fronte ai genitori. Il Gavia dunque nasce da un'equazione logica: un giovane, tolto, anche se per pochi giorni, dai tanti condizionamenti negativi della vita cittadina, cresce naturalmente cristiano perché più facilmente mantiene il suo stato di grazia e di rapporto amichevole con Dio. Questa non era un'idea fissa di Don Eugenio, era una convinzione. Tutto il resto avvenne come logica conseguenza. La ricerca del luogo il più possibilmente isolato, a contatto con una natura intatta, perché ancora impervia, incontaminata. Lo trovò e iniziò a realizzare la cosa più bella della sua vita. Progettò la ristrutturazione, diresse i lavori, costruì l'acquedotto, curò l'arredo interno. Non aveva soldi, ma tanto entusiasmo contagioso come l'influenza per cui anche le cose semplici diventavano eccezionali, perché uniche. "Uniche" perché solo noi le facevamo. Dovevamo fare tutto da noi per cui i lavori non finivano mai, ma tutti potevano dire che c'era del loro anche se a Don Eugenio non andava mai bene niente, neanche l'orario normale. Inventò l'OraGavia. Quando si entrava per la prima volta in Casa all'inizio di ogni stagione, sistemate le valige nelle camere, ci radunava in refettorio e, con gesto solenne, toglieva l'orologio dal taschino, lo guardava lisciandolo col pollice per verificarne il funzionamento regolare e poi lo metteva due ore avanti. Tutta la vita della Casa, compresa la sveglia, doveva essere regolata su questa ora legale. C'era un perché. Dovevamo sfruttare al massimo la luce naturale per non consumare troppo le batterie che servivano come luce di emergenza per la notte. C'era sempre un perché. Tutto doveva essere previsto, a tutto si doveva provvedere, nulla lasciato al caso. Teneva molto all'orario comunitario: vivere la quotidianità come insieme di buone abitudini. Gli, piaceva che i giovani si svegliassero presto e via. Una gita, un'ascensione, sempre attivi. Ad ognuno un piccolo incarico, un servizio a favore degli altri. Non gli piacevano quelli che se ne stavano a fare niente con le mani in tasca e la testa vuota. Le cose sciocche vengono in mente quando non si sa cosa fare...
Intanto era passata l'una, fuori iniziava a piovere a dirotto. Stavo per alzarmi e salutarlo, ma mi fermò con lo sguardo, si fece pensieroso, assunse un tono pacato, ma fermo. Con gli occhi fissi nei miei, mi ricordò quanto fosse importante la scelta delle persone che collaboravano, il loro modo di fare, le loro mansioni e soprattutto le mie. Un direttore è bravo quando non si nota: sa valorizzare gli altri. Ora era lui a ricordare..Alla sera, quando era sicuro che tutti dormivano, sedeva nel tinello, accanto alla vecchia cucina. Apriva il giornale e iniziava a leggere commentando ad alta voce i fatti del giorno. Intanto preparavo la scacchiera ben sapendo che quella partita non sarebbe mai finita. Non finivamo mai per due motivi. Primo non voleva mai perdere. Secondo, tra una mossa di cavallo e un arrocco, apriva sempre una discussione. Si parlava di tutto. Eravamo passati indenni attraverso gli anni della contestazione sessantottina che aveva travolto molte altre istituzioni simili alla nostra. L'Oratorio e il Gavia avevano resistito, anzi avevamo raggiunto il massimo di presenze, anche se Don Eugenio non faceva mai un bilancio puramente numerico. Il Gavia non è un albergo. Gli interessava di più il bilancio delle anime e aveva il senso della misura nelle proprie capacità. Gli avevo portato alcuni scritti di Marcuse, i proclami del maggio francese e dell'autunno tedesco, gli articoli di Capanna... La sua preoccupazione diventava rabbia. Era impressionato dalla mancanza di valori, dall'aridità delle tesi, di come si strumentalizzassero i giovani e i giovani non lo capivano...La rabbia poi diventava profonda preoccupazione perché intravedeva, in quel vuoto delle coscienze pericoli ben maggiori. Purtroppo aveva previsto giusto. Gli anni successivi furono i più gravi. La contestazione arrivò anche sui muri dell'Oratorio proprio nella domenica in cui festeggiavamo S. Antonio, nostro Patrono, e Don Eugenio rispose con un cartello in cui si ricordava che anche Antonio a Padova ebbe a che fare con il prepotente Ezzelino, fascista dell'epoca sua. La contestazione si fermò sul muro esterno, all'interno tutto continuò come prima...Quando la notte era tranquilla, indossata la giacca a vento, uscivamo a guardare le stelle. La stella polare, dritta davanti alla Casa. Vega e la Croce del Cigno a perpendicolo sopra di noi e poi tante, tante altre. A Don Eugenio piaceva che gli parlassi del cielo, della sua apparente tranquillità, delle sue terribili leggi sempre in bilico tra creazione e distruzione. Ascoltava, ascoltava in silenzio...
Ora il volto tornava sereno, parlava dei primi anni del Gavia e dei tanti giovani che ormai erano passati ed ora bisognava pensare anche alle ragazze. Occorrevano nuove idee. La povertà di idee genera nei giovani una pericolosa sudditanza psicologica che porta a confondere la fantasia con la realtà, il possibile con il reale, l'essenziale con il superfluo. Temeva l'ambiguità. Soleva dire che se un giovane sceglieva il compromesso era meglio per lui lasciare l'Oratorio. Amava invece la sincerità e pretendeva la schiettezza nel rapporto personale. La sincerità perché rifugge da qualsiasi inganno o falsità nel comportamento, la schiettezza perché il parlare doveva corrispondere all'effettivo modo di sentire e di pensare. La pretendeva perché un educatore non può lavorare se manca questo presupposto. Per questo spesso proponeva il Gavia come premio.
...Don Eugenio mi portò al Gavia la prima volta nel lontano agosto 1956. Salii con la famosa Jeep, residuato bellico ricarrozzato giardinetta su disegno Don Eugenio, tenuta insieme più dal suo entusiasmo e da quello del Mario autista che dalle leggi della fisica. Quattro ruote motrici, una rarità allora, ma allungata troppo nel telaio per cui spesso sugli stretti tornanti in terra battuta doveva fare marcia indietro. Avevo un po' di paura, ma lui sorrideva... Dopo molti anni Don Eugenio tirò fuori una vecchia foto e mi ricordò quel giorno. A tutti quelli che erano stati al Gavia, prima o poi, aveva una "bella foto" da mostrare. Bella perché era legata ad un piccolo, ma importante fatto personale che ognuno sa di aver condiviso solo con Don Eugenio... Nell'agosto 1986 ho passato le consegne agli amici più giovani che a mia volta avevo preparato. Quante storie da raccontare. Quante persone da ricordare. Impossibile in poche righe...
Erano le due. Il viso era stanco. Mi accompagnò lentamente verso il portoncino di via Borsieri. Passammo attraverso la vecchia portineria. Uscimmo sulla piazzetta. Pioveva a dirotto.
"Chissà al Gavia quanta neve" le ultime parole.
Le sue braccia strinsero per un attimo le mie. L'ultimo abbraccio.
"A domani" risposi. Poi di corsa attraversai la piazza e, rasente i muri, mi avviai a casa.
……
si spegne l'azzurro del Gavia
insieme ai ricordi puliti di neve
……
così scrissi, di getto, dopo quel triste ultimo sabato di gennaio di ventun'anni fa.
I ricordi, tristi o lieti che siano, sono come il vento del Gavia. A volte, quando è brezza è piacevole farsi accarezzare. Quando è bufera, ci piega e ci toglie il respiro. Quando poi cade e tutto torna tranquillo sembra che nulla sia cambiato, ma a furia di soffiare, col trascorrere del tempo; sappiamo che il vento modella anche le montagne. In ogni caso è impossibile fame a meno.
Alessandro Sai
La salma di don Eugenio esposta nella camera ardente allestita nel salone del Pensionato
30 Gennaio 1977 l'arcivescovo di Milano Card Colombo depone una Croce sul petto di Don Eugenio
30 Gennaio 1977 Mons. Libero Tresoldi presiede la celebrazione Eucaristica per il funerale di Don Eugenio
30 Gennaio 1977 Il carro funebre con la salma di Don Eugenio percorre le vie del rione tra due ali di folla